Nella prima metà dell’XI secolo Santa Maria di Pomposa si trasformò in una grande abbazia imperiale: divenne esente nei confronti dell’autorità arcivescovile – ossia il potente vicino ravennate – e immune dal potere pubblico – cioè dall’intervento dei funzionari del regno –, e fu anche dotata di un patrimonio amplissimo derivato dalla concessione di beni fiscali, papali e allodiali. Questo patrimonio, infatti, si estendeva non solo nel delta padano, ma su tutto l’Esarcato, la Pentapoli e anche in molte aree dell’Italia centrale.
La svolta che portò a questa nuova condizione, caratterizzata da potenza politica, prosperità economica e grande fioritura culturale, può essere individuata in un torno di anni molto preciso: fra il 999 e il 1001. In questo brevissimo lasso di tempo, Santa Maria di Pomposa compare nelle fonti prima fra i beni dell’arcivescovo di Ravenna, poi come dipendenza del monastero di San Salvatore fuori le Mura di Pavia, come abbiamo visto nella
scheda 2, e infine diventa un monastero imperiale.
Il 27 settembre 999, mentre si trovava a Roma, l’imperatore Ottone III emanò un diploma, pervenutoci in originale, con il quale confermava all’arcivescovo di Ravenna, Leone, gli ingenti beni patrimoniali e alcuni diritti pubblici sulla città di Ravenna concessi in passato alla sua chiesa dagli imperatori e, di recente, dai papi Giovanni XIII e Gregorio V. Questi beni erano distribuiti nell’intero Esarcato e sono elencati sulla base di una distrettuazione “comitale” della regione, che trova qui la sua prima attestazione. Comitati che devono quindi essere interpretati semplicemente quali territori ordinati dalle città romagnole, latamente intese. Dopo il “comitato” di Comacchio e quello di Ferrara sono menzionati la massam quę vocatur Fiscalia cum Corna cervina e il monasterium sanctae Marię in Pompusia. Dunque, Ottone riconobbe Santa Maria di Pomposa fra i beni di pertinenza della chiesa ravennate e, insieme con il nostro monastero, anche una massa, ossia una grande proprietà fondiaria, che nel nome tradisce una chiara origine fiscale e che può essere facilmente collocata nell’area dell’odierna Massa Fiscaglia, una località a circa 5 km a sud-est di Pomposa, posta lungo il Po di Volano. È importante notare che la massa non è indicata come pertinenza di Santa Maria di Pomposa, ma semplicemente come possesso diretto della chiesa ravennate [Ottonis III diplomata in MGH Diplomata, n. 330, pp. 758-759].
Neanche un anno dopo, il 6 luglio dell’anno 1000, Ottone III si trovava a Pavia e su richiesta di Andrea, abate del monastero di San Salvatore fuori le Mura, emanò un diploma, conservatosi anch’esso in originale, con cui confermava tutti i beni che sua nonna, l’imperatrice Adelaide, aveva donato a quel monastero, da lei stessa fondato nella capitale del regno italico probabilmente fra il 971 e il 972. Nel lungo elenco di curtes, monasteri e altri beni immobili confermati in quell’occasione e che, in parte, erano i beni del dotario italiano dell’imperatrice – come ha dimostrato Giacomo Vignodelli – ritroviamo anche il nostro monasterium sanctae dei genitricis Marie, in loco Pomposa dicto constructum, con le sue pertinenze. Queste si trovavano nel territorio di Comacchio, dove è importante sottolineare la presenza di colture specializzate, uliveti, e di alcune saline, che sono un tipico bene controllato dal fisco regio, e si trovavano anche nei territori di Ferrara e Faenza, quindi in diverse aree dell’esarcato, testimonianza di un primo ampliamento del raggio di azione del monastero, come abbiamo messo in evidenza nella
scheda 2 [Ottonis III diplomata in MGH Diplomata, n. 375, pp. 802-803].
Due diplomi emanati dal medesimo imperatore a brevissima distanza, in cui lo stesso bene - il nostro monastero – veniva confermato a due enti diversi, non potevano che provocare un conflitto.
E infatti pochi mesi dopo, il 4 aprile del 1001, per dirimere la questione della dipendenza di Santa Maria di Pomposa, a Ravenna si tenne un placito il cui testo ci è giunto tramite una copia imitativa redatta nell’XI secolo. In un contesto di particolare rilievo, vista la presenza di Ottone III, di papa Silvestro II e di molti grandi del regno, Andrea, l’abate di San Salvatore di Pavia che aveva ricevuto il diploma di conferma l’anno precedente, rinunciò ai diritti che vantava su Santa Maria di Pomposa in favore della chiesa ravennate perché riconobbe la veridicità di una cartula petitionis letta nel corso del placito. In tale cartula, Costantino, il precedente abate di Santa Maria di Pomposa, riconosceva che il suo monastero era una dipendenza della chiesa ravennate davanti all’allora arcivescovo Giovanni XIII, il predecessore di quel Leone che abbiamo visto comparire nel diploma del 999 [Volpini, Placiti del Regnum Italiae, n. 16, pp. 345-351].
A questo punto, si potrebbe pensare che la questione fosse stata risolta definitivamente in favore di Ravenna, se non che, poco più di sei mesi dopo il placito, il 22 novembre 1001, Ottone III emanò un nuovo diploma, anche in questo caso giuntoci in originale, che aveva per oggetto una permuta fra l’imperatore stesso e il nuovo arcivescovo di Ravenna, Federico. Da un lato, Ottone riceveva il monastero di Santa Maria di Pomposa e dall’altro concedeva all’arcivescovo Federico l’insieme dei diritti pubblici (placita et districtus et bannum) sulle terre di Sant’Apollinare – ossia sulla diocesi di Ravenna – e su tutte le diocesi e i comitati di cui in passato la chiesa ravennate aveva ricevuto diplomi. Contestualmente Ottone rendeva Santa Maria un monastero regio (ut regalis sit, si specifica nel diploma), sottraendolo alla soggezione della chiesa ravennate e di qualsiasi altro potere aristocratico (nulli dominantium persone subiecta). L’autonomia da Ravenna veniva ribadita anche nel passaggio in cui Ottone concedeva ai monaci la libertà di eleggere il loro abate perché si specificava che il nuovo abate doveva essere consacrato dal vescovo di Comacchio, ma se questi si fosse comportato male, i monaci potevano rivolgersi all’arcivescovo di Ravenna, e se anche costui non avesse assunto un atteggiamento gradito alla comunità, i monaci avrebbero potuto far consacrare il loro abate da un qualsiasi altro vescovo [Mezzetti, Carte di Pomposa, n. 52, pp. 115-120].