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Ottone III e il diploma del 1001:
la trasformazione in monastero imperiale

di Giovanni Isabella

L’imperatore Ottone III, seduto in trono con i simboli del potere imperiale (la corona, lo scettro e il globo con la croce), affiancato a sinistra da due ecclesiastici, a destra da due aristocratici laici, riceve l’omaggio di quattro donne in atteggiamento umile e a piedi scalzi, personificazioni delle diverse parti dell’impero (Sclavinia, cioè le terre degli slavi, Germania, Gallia e Roma), che portano a Ottone III ricchi doni: una coppa piena di pietre preziose, un ramo di palma, una cornucopia e un globo d’oro. Evangeliario di Ottone III, 1000 circa, Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, ms. Clm 4453, fol. 23v–24r.

Nella prima metà dell’XI secolo Santa Maria di Pomposa si trasformò in una grande abbazia imperiale: divenne esente nei confronti dell’autorità arcivescovile – ossia il potente vicino ravennate – e immune dal potere pubblico – cioè dall’intervento dei funzionari del regno –, e fu anche dotata di un patrimonio amplissimo derivato dalla concessione di beni fiscali, papali e allodiali. Questo patrimonio, infatti, si estendeva non solo nel delta padano, ma su tutto l’Esarcato, la Pentapoli e anche in molte aree dell’Italia centrale.
La svolta che portò a questa nuova condizione, caratterizzata da potenza politica, prosperità economica e grande fioritura culturale, può essere individuata in un torno di anni molto preciso: fra il 999 e il 1001. In questo brevissimo lasso di tempo, Santa Maria di Pomposa compare nelle fonti prima fra i beni dell’arcivescovo di Ravenna, poi come dipendenza del monastero di San Salvatore fuori le Mura di Pavia, come abbiamo visto nella scheda 2, e infine diventa un monastero imperiale.
Il 27 settembre 999, mentre si trovava a Roma, l’imperatore Ottone III emanò un diploma, pervenutoci in originale, con il quale confermava all’arcivescovo di Ravenna, Leone, gli ingenti beni patrimoniali e alcuni diritti pubblici sulla città di Ravenna concessi in passato alla sua chiesa dagli imperatori e, di recente, dai papi Giovanni XIII e Gregorio V. Questi beni erano distribuiti nell’intero Esarcato e sono elencati sulla base di una distrettuazione “comitale” della regione, che trova qui la sua prima attestazione. Comitati che devono quindi essere interpretati semplicemente quali territori ordinati dalle città romagnole, latamente intese. Dopo il “comitato” di Comacchio e quello di Ferrara sono menzionati la massam quę vocatur Fiscalia cum Corna cervina e il monasterium sanctae Marię in Pompusia. Dunque, Ottone riconobbe Santa Maria di Pomposa fra i beni di pertinenza della chiesa ravennate e, insieme con il nostro monastero, anche una massa, ossia una grande proprietà fondiaria, che nel nome tradisce una chiara origine fiscale e che può essere facilmente collocata nell’area dell’odierna Massa Fiscaglia, una località a circa 5 km a sud-est di Pomposa, posta lungo il Po di Volano. È importante notare che la massa non è indicata come pertinenza di Santa Maria di Pomposa, ma semplicemente come possesso diretto della chiesa ravennate [Ottonis III diplomata in MGH Diplomata, n. 330, pp. 758-759].
Neanche un anno dopo, il 6 luglio dell’anno 1000, Ottone III si trovava a Pavia e su richiesta di Andrea, abate del monastero di San Salvatore fuori le Mura, emanò un diploma, conservatosi anch’esso in originale, con cui confermava tutti i beni che sua nonna, l’imperatrice Adelaide, aveva donato a quel monastero, da lei stessa fondato nella capitale del regno italico probabilmente fra il 971 e il 972. Nel lungo elenco di curtes, monasteri e altri beni immobili confermati in quell’occasione e che, in parte, erano i beni del dotario italiano dell’imperatrice – come ha dimostrato Giacomo Vignodelli –  ritroviamo anche il nostro monasterium sanctae dei genitricis Marie, in loco Pomposa dicto constructum, con le sue pertinenze. Queste si trovavano nel territorio di Comacchio, dove è importante sottolineare la presenza di colture specializzate, uliveti, e di alcune saline, che sono un tipico bene controllato dal fisco regio, e si trovavano anche nei territori di Ferrara e Faenza, quindi in diverse aree dell’esarcato, testimonianza di un primo ampliamento del raggio di azione del monastero, come abbiamo messo in evidenza nella scheda 2  [Ottonis III diplomata in MGH Diplomata, n. 375, pp. 802-803].
Due diplomi emanati dal medesimo imperatore a brevissima distanza, in cui lo stesso bene - il nostro monastero – veniva confermato a due enti diversi, non potevano che provocare un conflitto.
E infatti pochi mesi dopo, il 4 aprile del 1001, per dirimere la questione della dipendenza di Santa Maria di Pomposa, a Ravenna si tenne un placito il cui testo ci è giunto tramite una copia imitativa redatta nell’XI secolo. In un contesto di particolare rilievo, vista la presenza di Ottone III, di papa Silvestro II e di molti grandi del regno, Andrea, l’abate di San Salvatore di Pavia che aveva ricevuto il diploma di conferma l’anno precedente, rinunciò ai diritti che vantava su Santa Maria di Pomposa in favore della chiesa ravennate perché riconobbe la veridicità di una cartula petitionis letta nel corso del placito. In tale cartula, Costantino, il precedente abate di Santa Maria di Pomposa, riconosceva che il suo monastero era una dipendenza della chiesa ravennate davanti all’allora arcivescovo Giovanni XIII, il predecessore di quel Leone che abbiamo visto comparire nel diploma del 999 [Volpini, Placiti del Regnum Italiae, n. 16, pp. 345-351].
A questo punto, si potrebbe pensare che la questione fosse stata risolta definitivamente in favore di Ravenna, se non che, poco più di sei mesi dopo il placito, il 22 novembre 1001, Ottone III emanò un nuovo diploma, anche in questo caso giuntoci in originale, che aveva per oggetto una permuta fra l’imperatore stesso e il nuovo arcivescovo di Ravenna, Federico. Da un lato, Ottone riceveva il monastero di Santa Maria di Pomposa e dall’altro concedeva all’arcivescovo Federico l’insieme dei diritti pubblici (placita et districtus et bannum) sulle terre di Sant’Apollinare – ossia sulla diocesi di Ravenna – e su tutte le diocesi e i comitati di cui in passato la chiesa ravennate aveva ricevuto diplomi. Contestualmente Ottone rendeva Santa Maria un monastero regio (ut regalis sit, si specifica nel diploma), sottraendolo alla soggezione della chiesa ravennate e di qualsiasi altro potere aristocratico (nulli dominantium persone subiecta). L’autonomia da Ravenna veniva ribadita anche nel passaggio in cui Ottone concedeva ai monaci la libertà di eleggere il loro abate perché si specificava che il nuovo abate doveva essere consacrato dal vescovo di Comacchio, ma se questi si fosse comportato male, i monaci potevano rivolgersi all’arcivescovo di Ravenna, e se anche costui non avesse assunto un atteggiamento gradito alla comunità, i monaci avrebbero potuto far consacrare il loro abate da un qualsiasi altro vescovo [Mezzetti, Carte di Pomposa, n. 52, pp. 115-120].
Diploma dell’imperatore Ottone III, emanato il 22 novembre 1001 a Ravenna, con cui Ottone riceveva il monastero di Santa Maria di Pomposa e in cambio concedeva all’arcivescovo di Ravenna Federico l’insieme dei diritti pubblici (placita et districtus et bannum) sulle terre controllate dalla chiesa ravennate. Diploma originale, Archivio di Stato di Roma, Collezione pergamene, Pomposa, cassetta 199, n.1.
Giustamente, la storiografia che si è occupata più intensamente di Pomposa, in particolare Antonio Samaritani, ha sottolineato l’importanza di questo documento, mettendo in risalto soprattutto la concessione della libertà di eleggere l’abate e l’autonomia da Ravenna come elementi propulsori per la crescita dell’abbazia nei secoli successivi. In tal modo, però, non si è messo in evidenza a sufficienza il senso complessivo dell’operazione che Ottone III compì elevando Santa Maria di Pomposa a monastero imperiale.
Per capire il significato di tale scelta è necessario considerare le disposizioni contenute nei tre diplomi e nel placito appena analizzati, nel contesto più ampio della politica di recupero dei beni monastici ed ecclesiastici e di riorganizzazione complessiva delle chiese del regno italico perseguita da Ottone III a partire almeno dal 997. In quell’anno, infatti, l’imperatore compì la sua seconda spedizione a Roma che riportò sul soglio pontificio Gregorio V, scacciato dalla città nell’autunno del 996, e diede avvio all’azione di recupero dei beni della chiesa romana alienati in precedenza dai papi in favore dell’aristocrazia romana, requisendoli in particolare ai vari rami dei Crescenzi, il gruppo parentale che aveva capeggiato l’opposizione a Ottone III e Gregorio V.
Nel settembre 998, questa azione si estese a tutto il regno italico con la promulgazione a Pavia del cosiddetto Capitulare Ticinense de praediis ecclesiarum. Con queste disposizioni, Ottone III denunciò la pratica di vescovi e abati di alienare i beni ecclesiastici loro affidati non con lo scopo di favorire le loro chiese, ma con l’obiettivo di creare alleanze politiche, favorire i propri parenti e ottenere denaro (non ad utilitatem aecclesiarum, sed pecuniae, affinitatis, amicitiae causa). Quindi l’imperatore ordinò a vescovi e abati di revocare tutti i contratti di livello e le enfiteusi che andavano a detrimento del patrimonio delle loro chiese e di riorganizzare i beni recuperati in modo da rendere il dovuto obsequium a Dio e all’imperatore. Nel capitolare, infatti, si afferma che la distribuzione dei beni ecclesiastici per motivi non leciti, cioè senza l’accordo di Ottone, non danneggiava solo la chiesa di Dio, ma colpiva anche la maestà dell’impero poiché a causa di tale comportamento i sudditi non potevano mostrare il dovuto obsequium nei confronti di Ottone. È evidente che in questo contesto l’obsequium mostra di avere un contenuto molto concreto, legato al controllo di beni materiali e alle conseguenti rendite fiscali, piuttosto che essere una generica obbedienza da prestare all’imperatore [Capitulare Ticinense in MGH Constitutiones I, pp. 49-51].
Infatti già nel 1993, a partire dall’analisi del Capitulare Ticinense e del contesto politico in cui fu promulgato, Knut Görich propose l’idea, ripresa nel 2002 da Nicolangelo D’Acunto, che il recupero dei beni ecclesiastici per volontà imperiale abbia costituito il contenuto effettivo e concreto della Renovatio imperii Romanorum. La Renovatio si configurerebbe così come un vero tentativo di restaurazione del potere imperiale nel regno italico: una restaurazione che aveva come base materiale il recupero e il controllo delle proprietà ecclesiastiche da parte di vescovi e abati che dovevano rispondere del loro utilizzo a Ottone III e che era supportata da una complessa costruzione ideologica caratterizzata da richiami all’antica Roma imperiale.
È in questo contesto di generale riorganizzazione dei beni delle chiese e dei monasteri come strumento di affermazione del potere effettivo di Ottone III che si può comprendere meglio la vicenda di Santa Maria di Pomposa. Se nel diploma del 999 l’imperatore aveva riconosciuto all’arcivescovo Leone i beni della chiesa ravennate e alcuni diritti pubblici sulla sola città di Ravenna, nel diploma del 1001 concesse all’arcivescovo Federico l’insieme dei diritti pubblici sull’intero Esarcato, ma si riservò il controllo diretto di un monastero posto in una zona strategica a cavallo fra l’Esarcato e il regno. Infatti, Santa Maria di Pomposa sorgeva nel punto in cui la via Romea – strada di intenso pellegrinaggio che univa le Alpi orientali e Venezia a Ravenna e poi a Roma – attraversava il Po di Volano, che nei secoli X e XI costituiva il ramo principale del grande fiume padano nel delta. Il monastero era già dotato di alcuni beni fiscali di grande valore, come le saline del litorale pomposiano, ma il salto di qualità in termini di patrimonio si ebbe soltanto negli anni successivi la trasformazione in monastero imperiale.
L’importanza strategica dell’area settentrionale dell’Esarcato, almeno agli occhi di Ottone III, è dimostrata anche da un altro intervento – simile nelle modalità e coevo nei tempi – a quello compiuto a Pomposa dall’imperatore: la trasformazione della chiesa di San Cassiano in un monastero dedicato a Sant’Adalberto, posto sull’isola litoranea del Pereo, a nord di Ravenna. Grazie al ritrovamento di un fascicolo contente alcuni regesti, redatti nel XVI secolo, di diplomi imperiali e di privilegi papali e arcivescovili, Paola Novara ha fornito gli strumenti per ricostruire in dettaglio la vicenda della fondazione del monastero di Sant’Adalberto in Pereo, finora conosciuta solo a grandi linee tramite le informazioni contenute in opere agiografiche dell’XI secolo e attraverso le notizie tramandate dallo storico cinquecentesco Girolamo Rossi. Fra l’8 maggio e il 19 dicembre 1001 Ottone III emanò tre diplomi – oggi perduti ma fortunatamente oggetto di regesto nel XVI secolo – con cui trasformò la chiesa di San Cassiano nel monastero di Sant’Adalberto, assegnando a san Romualdo il ruolo di abate e dotando il nuovo monastero con beni ingenti. Non tutte le proprietà sono identificabili con precisione, ma basta un elenco anche solo parziale per dimostrare l’importanza dell’investimento sul nuovo monastero. Ottone III, infatti, concesse a Sant’Adalberto tutti i beni che il monastero di Sant’Apollinare in Classe possedeva nei comitati di Ferrara e di Adria, poi alcune proprietà fondiarie di pertinenza regia, compreso un castrum, vicino al mausoleo di Teodorico a Ravenna; inoltre molti beni terrieri sparsi nel faentino e in altre aree dell’Esarcato e infine la corte regia de Asseriata e il porto di Volano con tutte le sue pertinenze e le sue peschiere.
Anche se oggi il monastero di Sant’Adalberto è scomparso, sappiamo che con ogni probabilità sorgeva sulla riva sinistra dell’allora Po di Primaro, corrispondente in quel tratto all’attuale fiume Reno, proprio nel punto in cui la via Romea attraversava il secondo ramo per importanza del Po in area esarcale durante il pieno medioevo, molto vicino a dove oggi si trova il piccolo centro di Sant’Alberto, che evidentemente ha ereditato in modo semplificato il nome del monastero scomparso.
È evidente che i due interventi, quello su Santa Maria di Pomposa e quello su Sant’Adalberto in Pereo, furono parte di una stessa strategia: nel 1001 Ottone III trasformò due enti religiosi già esistenti, ma di relativa importanza, in monasteri sotto il controllo regio perché sorgevano in due punti particolarmente rilevanti, cioè all’incrocio fra le due principali vie d’acqua dell’area con la più importante via di terra, e quindi potevano assicurare all’imperatore il controllo territoriale e lo sfruttamento economico di tutta l’area settentrionale dell’Esarcato, quella corrispondente all’incirca al comitato di Comacchio, che pochi decenni prima era stato assegnato da Ottone I ad Adelaide, come abbiamo visto nella scheda 2.
Gli interventi di Ottone III non furono un’operazione contro la chiesa ravennate, bensì un’azione concertata con l’arcivescovo Federico, il primo della lunga serie di arcivescovi di origine tedesca a occupare la cattedra ravennate nell’XI secolo. Federico, infatti, era un uomo strettamente legato a Ottone e poco dopo divenne il principale alleato di Enrico II in Italia, insieme con Tedaldo di Canossa, nella lotta che contrappose il successore di Ottone sul trono tedesco ad Arduino, marchese di Ivrea, per il controllo del regno italico.
La morte prematura che colpì Ottone III il 23 gennaio 1002, appena due mesi dopo l’emanazione del diploma di permuta con Federico, bloccò il progetto di investimento su Santa Maria di Pomposa, mentre quello su Sant’Adalberto in Pereo aveva già preso forma nel corso del 1001, ma quando intorno al 1013/1014 Enrico II riuscì a sconfiggere definitivamente Arduino e ottenne così il controllo incontrastato del regno italico, il patrimonio di Santa Maria di Pomposa cominciò a crescere vertiginosamente.

Bibliografia scelta

Fonti:
Capitulare Ticinense de praediis ecclesiarum neve per libellum neve per emphyteusin alienandis in Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, vol. 1, 911–1197, ed. Ludwig Weiland, MGH Leges, sectio IV, Hannover 1893, pp. 49-51.

Le carte dell’archivio di Santa Maria di Pomposa (932-1050), a cura di Corinna Mezzetti, Fonti per la storia dell’Italia medievale, Regesta chartarum, 62, Roma 2016.

Ottonis III diplomata, ed. Theodor Sickel, MGH Diplomata, Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser 2.2, Hannover 1893.
Raffaello Volpini, Placiti del Regnum Italiae (secc. IX-XI), Milano 1975.

Studi:
Nicolangelo D’Acunto, Nostrum Italicum regnum. Aspetti della politica italiana di Ottone III, Milano 2002.

Knut Görich, Otto III. Romanus Saxonicus et Italicus. Kaiserliche Rompolitik und sächsische Historiographie, Sigmaringen 1993.

Paola Novara, S. Adalberto in Pereo e la decorazione in laterizio nel Ravennate e nell’Italia settentrionale (secc. VIII-XI), Mantova 1994.

Antonio Samaritani, Le origini del monastero di Pomposa fra VI e X secolo e La riforma monastica pomposiana del secolo XI, entrambi pubblicati in Samaritani, Presenza monastica ed ecclesiale di Pomposa nell'Italia centrosettentrionale. Secoli X-XIV, Ferrara 1996, rispettivamente pp. 13-30 e pp. 31-50.

Giacomo Vignodelli, Berta e Adelaide: la politica di consolidamento del potere regio di Ugo di Arles, in «Reti Medievali Rivista», 13/2 (2012), pp. 247-294. https://doi.org/10.6092/1593-2214/369.
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