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L’intervento degli Ottoni e la dipendenza da San Salvatore di Pavia

di Giovanni Isabella

L’imperatore Ottone I, sua moglie Adelaide e il figlio Ottone II inginocchiati rendono omaggio a Cristo seduto in trono, in piedi a sinistra San Maurizio, a destra Maria, in alto due angeli alati. Tavoletta di avorio, X secolo, conservata nel Museo delle Arti Decorative, Castello Sforzesco, Milano.

Dopo la donazione di Engelrada (896), Santa Maria di Pomposa scompare dalle fonti scritte per quasi cento anni, cioè fino alla fine del X secolo. Questo silenzio ha spinto Gina Fasoli, una pioniera degli studi moderni su Pomposa, a formulare l’ipotesi della distruzione del monastero da parte degli ungari, visto che essi avevano devastato la vicina Adria all’inizio del X secolo. Tale ipotesi si basava implicitamente sull’idea che Santa Maria fosse un monastero ricco e potente già in età carolingia e che quindi il silenzio sull’ente potesse essere giustificato solo dalla sua distruzione materiale. Ma, come abbiamo visto nella scheda precedente (scheda 1), con ogni probabilità Santa Maria non era affatto un monasterium di grande rilevanza nel IX secolo. Dunque, non è più necessario pensare a una sua distruzione per mano degli ungari per spiegare il silenzio delle fonti scritte sul cenobio in quel determinato periodo. D’altronde, l’assenza di attestazioni è un fenomeno che accomuna Santa Maria di Pomposa a molti altri enti religiosi ed ecclesiastici durante l’alto e pieno medioevo, la cui ragione risiede spesso nella scomparsa di parte della documentazione.
Quando e in quale contesto Santa Maria di Pomposa riemerge nelle fonti scritte?
Tradizionalmente si riteneva che Pomposa fosse riapparsa già nel 982. Il monastero di Santa Maria, infatti, è indicato in un diploma datato 30 settembre 982 con cui Ottone II conferma tutti i beni che in passato erano stati concessi da lui stesso, da suo padre Ottone I e da sua madre Adelaide al monastero pavese di San Salvatore fuori le Mura. Fra i numerosissimi beni elencati si trova anche il monasterium sancte dei genitricis Marie in loco Pomposa constructum, insieme con le saline e gli uliveti di sua pertinenza che si trovavano nel territorio di Comacchio. Questa attestazione, però, non può più essere accettata come veritiera: Michele Ansani ha dimostrato che questo diploma rientra fra le molte falsificazioni prodotte a Pavia fra XI e XII secolo. Il documento, infatti, non ci è giunto in originale, ma solo tramite una copia imitativa redatta nell’XI secolo, che probabilmente rielaborò un diploma di Ottone II per San Salvatore oggi perduto. Giacomo Vignodelli ritiene che la copia sia stata scritta ex novo con l’aggiunta di molte curtes nei primi decenni del secolo XI dai monaci di San Salvatore di Pavia con l’intento di rivendicare l’insieme dell’ingente patrimonio di Adelaide [Ottonis II diplomata in MGH Diplomata, n. 281, pp. 327-328].
Comunque, anche se allo stato attuale degli studi il diploma di Ottone II deve essere ritenuto un falso, la dipendenza di Santa Maria di Pomposa da San Salvatore fuori le Mura di Pavia emerge come dato incontrovertibile visto che è presente anche in un diploma, in questo caso originale, emanato quasi vent’anni dopo. Il 6 luglio del 1000, a Pavia, Ottone III confermò al monastero di San Salvatore, su richiesta del suo abate Andrea, il possesso di tutti i beni concessi al cenobio da sua nonna Adelaide e da altre persone, di cui non si specifica il nome [Ottonis III diplomata in MGH Diplomata, n. 375, pp. 802-803]. Il dato per noi più significativo è che nel lungo elenco di proprietà ritroviamo ancora una volta il monasterium sancte dei genitricis Marie in loco Pomposa dicto constructum. Probabilmente questa dipendenza era già stata formalizzata negli anni Ottanta del X secolo: Ottone III, infatti, afferma che suo padre aveva già concesso un diploma di conferma a San Salvatore di Pavia ed è ragionevole ipotizzare che vi comparisse anche Santa Maria di Pomposa.
Il diploma di Ottone III, inoltre, permette di gettare uno sguardo sul patrimonio pomposiano alla fine del secolo X perché nel suo dettato sono riportate anche le dipendenze di Santa Maria. Oltre alle saline e agli uliveti presenti nella zona di Comacchio, già indicati nel diploma del 982, sono confermati tutti i beni posseduti a Reda, una località a circa 4 km a nord-est di Faenza; a Quinto, un fundus, cioè una sottounità della massa, la denominazione delle grandi proprietà fondiarie in area esarcale, posto in territorio comacchiese, probabilmente a San Giovanni, frazione di Ostellato, a circa 20 km a sud di Pomposa; a Cornacervina, una località a circa 25 km a sud-ovest di Pomposa; a Uigariolo, probabilmente da identificare con Ficarolo, località a circa 10 km a nord-ovest di Ferrara; a Sareniano, coincidente con il fundus Sereniana, posto in territorio ferrarese nella zona di Trento, località vicino Ficarolo; oltre che a Zunzadega e Ziunziano, due toponimi non ancora identificati.
Patrimonio di Santa Maria di Pomposa alla fine del X secolo (le località in giallo sono di sicura identificazione; le località in viola sono di probabile ma non certa identificazione)
Qual’è l’impressione che suscita la lettura di questo elenco? Certamente che il patrimonio di Santa Maria di Pomposa avesse una certa consistenza, perché oltre a beni fondiari e a coltivazioni specializzate, cioè gli uliveti, annoverava anche delle saline, beni di origine fiscale di grande valore economico. Ma soprattutto perché era dislocato su tutto il territorio dell’esarcato: dal faentino a sud fino al ferrarese a nordovest, passando per i possessi più antichi e forse più cospicui nel territorio di Comacchio.
Se confrontiamo questo patrimonio con quello che emerge dalla donazione di Engelrada (896) (scheda 1), pur tenendo presente che quest’ultimo è con ogni probabilità parziale, ricaviamo comunque l’impressione di un certo ampliamento del raggio di azione.
Alla fine del secolo IX, infatti, i beni erano posti a circa 25 km da Pomposa, ora ne troviamo molti situati a più di 70 km di distanza, sia nell’area meridionale, sia in quella nordoccidentale dell’esarcato. Però non dobbiamo farci ingannare dalla diversificazione dei beni e dalla dimensione regionale perché il patrimonio di Santa Maria, composto da vari fundi e da alcune saline (di cui non conosciamo l’esatto numero) risulta comunque di modeste dimensioni se confrontato con quello di un coevo monastero regio, che poteva annoverare fino a una decina di curtes o massae, grandi proprietà fondiarie composte da numerosi fundi, oltre che altri monasteri dipendenti, castra, cioè villaggi fortificati, e diritti fiscali, come quello sui mercati.
La comparazione è lecita perché proprio a questo periodo, più precisamente alla metà degli anni ‘80 del X secolo, risale un documento che permette di sciogliere i dubbi sullo statuto istituzionale di Santa Maria di Pomposa, dimostrando che aveva assunto, con certezza, la fisionomia di monastero. Si tratta della donazione redatta a Comacchio il 1° dicembre 986, giunta sino a noi in originale, tramite cui Albina, con il consenso del marito Pietro, cedeva una casa cum solo terre et curticella sua e un orto, siti a Comacchio, a Martino, prete, monaco e abate del monastero di Santa Maria di Pomposa. Entrambi i beni, si specifica nella carta, erano appartenuti a Luliano, diacono e monaco del medesimo monastero, e venivano ceduti proprio per la salvezza dell’anima del defunto monaco [Mezzetti, Carte di Pomposa, n. 30, pp. 65-68]. L’elemento che permette di sciogliere ogni dubbio sullo forma istituzionale assunta da Pomposa, almeno a partire da questi anni, è l’uso del termine monachus per indicare la condizione ecclesiastica sia di Martino, sia di Luliano. Infatti, se il termine monasterium, come abbiamo visto nella scheda precedente (scheda 1), aveva una certa ambiguità nei secoli altomedievali perché poteva indicare tanto una semplice chiesa quanto un monastero, nel X secolo il termine monachus ha interpretazioni assolutamente univoche: indica sempre il membro di una comunità monastica, che poteva anche assumere compiti del clero secolare, come in questo caso il ruolo di diacono o di prete, ma rimaneva comunque vincolato alla vita cenobitica. Questa donazione rappresenta la prima attestazione nelle fonti scritte della presenza di monaci appartenenti alla comunità di Santa Maria di Pomposa, e proprio a partire da questo momento le menzioni si ripetono: in tutti i pochi documenti relativi al nostro monastero, sia originali, sia copie realizzate in un periodo successivo, datati fra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo l’abate è sempre indicato anche come prete e, soprattutto, come monachus.
A questo punto, rimangono da chiarire le modalità e le ragioni per cui il monastero di Pomposa è entrato a far parte del patrimonio di San Salvatore. In assenza di un documento – una donazione o una permuta, per esempio – che attesti in modo diretto questo passaggio, è necessario allargare lo sguardo e ricostruire il processo di affermazione del potere ottoniano nell’esarcato durante la seconda metà del X secolo, prestando particolare attenzione al ruolo svolto dall’imperatrice Adelaide.
Quando, nel 962, Ottone I si fece incoronare imperatore a Roma da papa Giovanni XII, giurò solennemente che avrebbe restituito l’esarcato e la pentapoli al pontefice, proprio come aveva promesso Carlo Magno all’indomani della conquista del regno longobardo nel 774. Ma proprio come il primo imperatore carolingio, anche Ottone I non mantenne in concreto la promessa fatta. Nei primi anni, vi furono sicuramente ragioni militari che gli impedirono di adempiere al giuramento: le aree meridionali dell’esarcato e la pentapoli furono zone di strenua difesa all’invasione ottoniana iniziata nel 961, tanto che il re italico Berengario II si rifugiò proprio nella rocca di San Leo, ancora oggi svettante nell’entroterra di Rimini, dove fu costretto a capitolare solo alla fine del 964. Anche se Adalberto di Magonza, autore molto vicino all’imperatore, afferma che Ottone restituì l’insieme di quelle terre al papa nel 967 [Adalberti Continuatio Reginonis, p. 178], è molto probabile, invece, che quest’ultimo abbia mantenuto un saldo controllo su almeno una parte dell’esarcato. Tutte le fonti, infatti, sono concordi nell’attestare che durante le varie spedizioni compiute in Italia fra il 961 e il 972 Ottone soggiornò molto spesso e per lunghi periodi a Ravenna. Inoltre, è molto probabile che fra il 967 e il 971 Ottone fece costruire un palazzo imperiale nel suburbio meridionale di Ravenna, fuori porta Porta San Lorenzo, anche se l’edificio non è stato ancora rinvenuto dagli archeologi, come ricorda Enrico Cirelli, che pure ritiene attendibile la notizia. I soggiorni frequenti e la costruzione di una residenza che mostrasse materialmente la “presenza” dell’imperatore anche quando Ottone non si trovava in città sono attestazioni di una volontà specifica di controllo su Ravenna e quindi, di conseguenza, sull’esarcato. Una volontà che viene confermata, anzi rafforzata, dalla concessione ad Adelaide dell’insieme dei diritti pubblici, cioè il districtus, l’intera linea di costa, la moneta, il teloneo, il mercato, le mura e le porte della città di Ravenna, insieme con il possesso dell’intero comitato di Comacchio, in cui – è bene ricordarlo – sorgeva Santa Maria di Pomposa. Non possediamo un documento che attesti in modo diretto tale concessione, ma è possibile dedurla da un privilegio pontificio, con cui nel 998 papa Gregorio V assegnò quei diritti e quei beni a Gerberto d’Aurillac, il futuro papa Silvestro II, che in quel momento era arcivescovo di Ravenna, precisando che tale concessione sarebbe stata effettiva solo dopo la morte di Adelaide [Zimmermann, Papsturkunden, n. 354, pp. 689-692]. È dunque evidente che l’imperatrice detenesse i diritti pubblici – che prevedano anche introiti economici – sul principale centro politico dell’esarcato e il controllo diretto su un territorio – quello di Comacchio – di notevole ricchezza, sia per la presenza di grandi massae e di numerose saline, sia per il controllo del delta del Po, punto d’arrivo della principale arteria commerciale del regno italico e snodo per gli scambi fra la pianura padana e il mar Adriatico.
La penetrazione del potere ottoniano nell’esarcato, incarnato dall’azione congiunta di Ottone I e Adelaide, sembra sia avvenuta in pieno accordo con il principale attore politico dell’area, l’arcivescovo di Ravenna Pietro. Fin dall’arrivo di Ottone in Italia nel 961, l’arcivescovo Pietro si schierò apertamente a favore del futuro imperatore e forse fu anche questa scelta di campo una delle ragioni della rivolta scoppiata nel 966 a Ravenna, durante la quale una parte dell’aristocrazia cittadina guidata dal diacono Rainerio saccheggiò il palazzo arcivescovile e imprigionò Pietro. Ma grazie all’intervento militare di Ottone, l’arcivescovo fu presto liberato e reinsediato sulla cattedra ravennate, mentre l’anno successivo, in un solenne placito tenutosi a Ravenna e presieduto congiuntamente dall’imperatore e dal papa, Rainerio fu condannato alla confisca di tutto il suo ingente patrimonio – era infatti un discendente della comitissa Engelrada – che fu contestualmente assegnato alla chiesa ravennate. Nel 971, però, Pietro lasciò la cattedra arcivescovile, si ritirò in monastero e sparì dalla scena politica ravennate: è possibile che questa scelta fosse dettata da motivi di età, visto che ricopriva quel ruolo dal 927, ma è possibile anche, come ritiene David Warner, che egli sia stato costretto a farsi da parte da quella stessa fazione dell’aristocrazia ravennate, che pochi anni prima lo aveva imprigionato. Infatti, al suo posto fu eletto Onesto, esponente di una delle principali famiglie dell’élite ravennate, che riprese con forza la politica di larghe concessioni di terre ecclesiastiche ai membri dell’aristocrazia esarcale. Onesto mantenne sicuramente buoni rapporti con Ottone I e con il suo successore Ottone II, ma l’avvicendamento con Pietro, fedelissimo alla causa imperiale, e il ritorno a dinamiche più “collegiali” nella gestione dell’esarcato da parte del nuovo arcivescovo potrebbero aver spinto Ottone I e Adelaide ad affidare il controllo di alcuni beni – per esempio, il monastero di Santa Maria di Pomposa – a mani ritenute più affidabili, come un monastero regio sotto il loro diretto controllo.
Proprio negli anni Settanta del X secolo, forse fra il 971 e il 972, Adelaide fondò a Pavia il monastero regio di San Salvatore fuori le Mura dotandolo riccamente con beni propri ma di chiara origine fiscale. È dunque probabile che sia proprio questo il momento in cui, tra gli altri beni confluiti nella nuova fondazione pavese, anche Santa Maria di Pomposa sia entrata nel patrimonio di San Salvatore, con l’obbiettivo di assicurare al controllo imperiale un monastero dalla posizione strategica, un obbiettivo che divenne ancora più chiaro con l’azione di Ottone III. (scheda 3)

Bibliografia scelta

Fonti:
Adalberti Continuatio Reginonis, in Reginonis abbatis Prumiensis Chronicon cum Continuatione Treverensi, ed. Friedrich Kurze, MGH Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separatim editi 50, Hannover 1890, pp. 154-179.

Le carte dell’archivio di Santa Maria di Pomposa (932-1050), a cura di Corinna Mezzetti, Fonti per la storia dell’Italia medievale, Regesta chartarum, 62, Roma 2016.

Ottonis II diplomata, ed. Theodor Sickel, MGH Diplomata, Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser 2.1, Hannover 1888.

Ottonis III diplomata, ed. Theodor Sickel, MGH Diplomata, Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser 2.2, Hannover 1893.

Studi:
Michele Ansani, Diplomi per S. Salvatore di Pavia, in Herrscherurkunden für Empfänger in Lotharingien, Oberitalien und Sachsen (9.–12. Jahrhundert), a cura di Wolfgang Huschner, Theo Kölzer, Marie Ulrike Jaros, Leipzig 2020, pp. 253-259.

Ovidio Capitani Chiese e monasteri pavesi nel secolo X, in Atti del 4. Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Pavia - Scaldasole - Monza - Bobbio, 10-14 settembre 1967, Spoleto 1969, pp. 107-154.

Enrico Cirelli, Ravenna: archeologia di una città, Borgo San Lorenzo 2008.

Maria Elena Cortese, Sui sentieri del sale. Proprietà, risorse e circuiti economici tra Comacchio e Ravenna (secoli IX-X), in «Reti Medievali Rivista», 23/1 (2022), pp. 1-39.  https://doi.org/10.6093/1593-2214/9080.

Gina Fasoli, Incognite della storia dell'abbazia di Pomposa fra il IX e l'XI secolo, in «Benedictina», anno XII, nn. III-IV (1959), pp. 197-214.

Gina Fasoli, Il dominio territoriale degli arcivescovi di Ravenna fra l'VIII e l'XI secolo, in I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania, a cura di Carlo Guido Mor e Heinrich Schmidinger, Bologna 1979, pp. 87-140.

Giacomo Vignodelli, Berta e Adelaide: la politica di consolidamento del potere regio di Ugo di Arles, in «Reti Medievali Rivista», 13/2 (2012), pp. 247-294. https://doi.org/10.6092/1593-2214/369.

Simon MacLean, Ottonian queenship, Oxford 2017.

David A. Warner, The Representation of Empire: Otto I at Ravenna, in Representations of power in medieval Germany 800 – 1500, a cura di Björn Weiler, e Simon MacLean, Turnhout 2006, pp. 121-140.
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