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Le origini incerte di Santa Maria di Pomposa

di Giovanni Isabella
La nascita del monastero di Santa Maria di Pomposa non è attestata da alcuna fonte scritta.
Non è giunto fino a noi un diploma di fondazione da parte di un re, un imperatore o di un laico potente, come invece è avvenuto per molti altri monasteri medievali. Non ci è giunta nemmeno una cronaca del monastero, che almeno retrospettivamente getti luce sulle origini di Santa Maria di Pomposa. Non si è conservato, se mai è esistito, un catalogo dei primi abati, cioè una lista con i loro nomi, alcuni dati biografici e pochi avvenimenti coevi particolarmente importanti, che in molti altri casi ha permesso di ricostruire, per quanto in modo scarno, i primi passi di un cenobio. Il caso di Santa Maria di Pomposa, però, non è né raro, né eccezionale: sono numerosi, infatti, i monasteri sorti durante l’altomedievo le cui origini rimangono ancora oggi oscure.
Dunque, la storia del monastero comincia in medias res: quando vediamo comparire per la prima volta Santa Maria di Pomposa nelle fonti scritte il monastero ha già percorso un tratto della sua vita, di cui però non conosciamo la lunghezza. La prima attestazione documentaria dell’esistenza di Santa Maria di Pomposa è un frammento di lettera inviata da papa Giovanni VIII all’imperatore Ludovico II il 29 gennaio 874, giunto fino a noi solo perché il cardinale Deusdedit, il principale giurista attivo a Roma durante il pontificato di Gregorio VII, lo inserì nella sua Collectio canonum, un importante trattato di diritto canonico redatto alla fine dell’XI secolo [Fragmenta registri Iohannis VIII papae, in MGH Epistolae Karolini Aevi V, n. 31, p. 291].
Nel frammento, Giovanni VIII rivendica come proprietà della chiesa romana i monasteria di Santa Maria di Pomposa, di San Salvatore in Montefeltro e di San Probo, di cui non specifica l’ubicazione; rivendica inoltre la proprietà dei contadini e dei beni fondiari presenti nei territori di Ferrara e Adria (le aree a ovest e a nord di Pomposa), così come di Galeata e Fantella (località dell’appennino forlivese, situate appena a nord del Montefeltro). Le rivendicazioni di Giovanni VIII, dunque, si riferiscono a due aree precise: l’una a nord e l’altra a sud dell’esarcato, ma ai fini della storia di Pomposa l’aspetto più rilevante è che i coloni e le proprietà fondiarie non compaiono come dipendenze dei due monasteria vicini, bensì come beni indipendenti. Il frammento quindi non fornisce alcuna indicazione sul patrimonio di Santa Maria di Pomposa a quel tempo.
Rimane da svelare contro chi il papa rivendicava quei possessi. Nel frammento, Giovanni VIII è molto esplicito a riguardo perché indica più volte l’arcivescovo di Ravenna: dal testo si intuisce che l’arcivescovo aveva protestato presso l’imperatore per le ingerenze papali e quindi il pontefice ribadisce con forza che quei beni erano di pertinenza romana, già proprietà dei papi da molto tempo. Questo documento rientra fra le molte testimonianze del conflitto che, fin dalla metà dell’VIII secolo, vide contrapposti i pontefici romani e gli arcivescovi di Ravenna per il controllo dell’esarcato e della pentapoli in generale, nonché di singoli beni presenti in quei territori, probabilmente di origine fiscale e cioè di proprietà imperiale in età tardoantica. I papi basavano le loro pretese sulla presunta concessione alla chiesa romana dell’esarcato e della pentapoli da parte di Pipino, re dei Franchi, rinnovata poi da suo figlio Carlo Magno, mentre gli arcivescovi di Ravenna si presentavano come gli eredi dell’esarca, cioè l’alto funzionario bizantino che aveva governato l’area fino alla conquista longobarda del 751, rafforzando così un controllo di fatto derivato dalla loro presenza sul territorio.
Gli imperatori Costantino IV, Eraclio e Tiberio concedono i privilegi (relativi all’autocefalia?) all’arcivescovo di Ravenna.
Pannello a mosaico posto sulla parete ai lati dell’abside di Sant’Apollinare in Classe, VII secolo.
Nell’analisi della lettera ho usato di proposito il termine latino monasterium, presente nella fonte, al posto del corrispettivo italiano monastero perché non vi è certezza su quale forma avesse Santa Maria di Pomposa al suo primo apparire nelle fonti: monastero o semplice chiesa. Gli studiosi, infatti, concordano da tempo sull’ambiguità del termine monasterium in area ravennate: fra il V e il IX secolo, i numerosissimi monasteria urbani presenti nelle fonti non erano cenobi abitati da una comunità di monaci, bensì piccoli luoghi di culto di fondazione privata, affidati a un membro del clero secolare della chiesa ravennate – diacono, prete, arcidiacono – che ricopriva anche il ruolo di abate del monasterium. Per quel che riguarda i monasteria disseminati nel territorio dell’esarcato sono particolarmente illuminanti due casi in cui è possibile incrociare fonti scritte e archeologiche: si tratta di Santa Maria in Padovetere e di San Giorgio d’Argenta.
Nel Liber pontificalis ecclesiae ravennatis, la principale fonte narrativa altomedievale relativa all’esarcato, scritta da Agnello a metà del IX secolo, sono definiti entrambi monasteria e si specifica che furono fondati da due diversi arcivescovi di Ravenna nel corso del VI secolo. Però, gli scavi archeologici effettuati nei due siti hanno riportato alla luce soltanto le strutture di due chiese, compatibili con una fondazione di VI secolo, che nel caso di Santa Maria in Padovetere era affiancata anche da un battistero, ma in nessuno dei due siti è stata rinvenuta traccia di edifici per la vita comunitaria, necessari per presupporre l’esistenza di un monastero.
Per quel che riguarda Santa Maria di Pomposa non sono disponibili risultati di scavi recenti e affidabili da un punto di vista metodologico, come invece nei casi appena illustrati. Infatti, le campagne di scavo effettuate nel biennio 1961-1962 non hanno tenuto conto delle stratigrafie e quindi le strutture riportate alla luce non sono databili con sicurezza. In ogni caso, sono stati individuati i resti di due edifici di culto precedenti a quello attuale: una piccola chiesa (lunga appena sette metri) a navata unica e con abside semicircolare, distrutta in seguito per far posto alle strutture del monastero pienomedievale; dell’altro edifico di culto, invece, non si conoscono né la forma, né le dimensioni perché sono sopravvissute solo le fondamenta dell’abside, nei pressi dell’abside minore sinistra della chiesa attuale. Nel 1975 poi, sono stati effettuati saggi esplorativi nella chiesa abbaziale odierna che hanno rilevato le strutture originarie dell’edificio. La chiesa primitiva aveva pianta basilicale a tre navate con un’unica abside centrale ed era più piccola della chiesa attuale perché, sebbene avesse la stessa larghezza, in lunghezza arrivava solo fino alla settima campata, partendo dal presbiterio. All’interno vi erano colonne di spoglio con capitelli romani di reimpiego, e il pavimento era realizzato con un semplice cocciopesto. Tutti gli elementi, dai materiali costruttivi agli aspetti tipologici e morfologici dell’edificio, indicano Ravenna come luogo promotore della costruzione e permettono, con buona probabilità, di datare l’edificio alla fine dell’VIII secolo. Anche a Pomposa gli scavi non hanno rilevato tracce di edifici adibiti alla vita comunitaria tipici dei monasteri, ma in questo caso tali strutture potrebbero essere nascoste dagli attuali edifici monastici pienomedievali. In definitiva, solo una serie di nuovi scavi condotti in tutta l’area dell’abbazia potrebbe chiarire la datazione delle varie fasi degli edifici più antichi e dare una risposta all’interrogativo se Santa Maria di Pomposa sia nata come semplice chiesa o se sia stata un monastero con annesso luogo di culto fin dalle sue origini.
Pianta complesso

Pianta del complesso attuale di Santa Maria di Pomposa con la chiesa e gli edifici superstiti del monastero. Le linee tratteggiate indicano le strutture precedenti rinvenute nel 1961-1962: a sinistra l’abside di una chiesa, a destra la piccola chiesa a navata unica. Tratta da S. Patitucci Uggeri, I “castra” e l’insediamento sparso fra V e VIII secolo, in Storia di Ferrara. Vol. III. L’età antica (II), IV a. C. - VI. d. C., Ferrara 1989, p. 549.

Il secondo documento in cui compare Santa Maria di Pomposa permette di far luce sulle reti politiche ed economiche in cui era inserito il monasterium in questa fase precoce della sua vita. Mi riferisco alla donazione della comitissa Engelrada in favore di suo figlio Pietro, diacono della chiesa ravennate, datata 896 ma giunta fino a noi tramite una copia realizzata nel XVI secolo [Benericetti, Le carte ravennati dei secoli ottavo e nono, n. 54, pp. 141-148]. Engelrada ebbe un ruolo di grande rilievo all’interno della aristocrazia esarcale: figlia del comes palatii Hucpold, una delle figure di maggior potere nel regno italico, si unì in matrimonio con il dux Martino, esponente del gruppo dirigente che governava l’esarcato insieme con l’arcivescovo di Ravenna. Il matrimonio fra Engelrada e Martino, probabilmente stretto nei primi anni ‘80 del IX secolo, rientrava nella strategia perseguita dall’arcivescovo Romano per costruire alleanze con le aristocrazie del regno italico in funzione antiromana, cioè per guadagnare appoggi che gli consentissero di contenere le mire papali sull’esarcato, di cui la lettera di Giovanni VIII è solo uno dei molti esempi che punteggiano quei decenni.
La donazione dell’896 mostra tutto il potenziale politico ed economico che questa unione aveva prodotto: Engelrada, ormai vedova di Martino, dona al figlio Pietro il suo vastissimo patrimonio, derivante dall’eredità paterna, da quella del marito defunto e dalle acquisizioni fatte in proprio, un patrimonio composto da grandi proprietà fondiarie collocate nei territori faentino, forlivese, ravennate, comacchiese, ferrarese e gavellese (cioè l’attuale rodigino), oltre ai monasteria di Sant’Eufemia e San Tommaso a Rimini e diverse case con monasteria a Ravenna. Dunque, insieme con consistenti beni sugli Appennini, collocati lungo le strade di valico fra l’esarcato e la Toscana,  si possono individuare nuclei patrimoniali che coprono l’intera area esarcale e il nord della pentapoli.
Il passo della donazione in cui compare Santa Maria di Pomposa è quello relativo al territorio di Comacchio: fra i molti beni fondiari donati da Engelrada in quell’area vi sono anche l’intera proprietà di Quinto Maiore, due parti di quella sita a Cornacervina e un ottavo di quella a Finale di Rero, tutti beni che Engelrada deteneva in concessione da parte del monasterium di Santa Maria di Pomposa. Dunque, grazie a questo documento, veniamo a sapere che alla fine del IX secolo Pomposa era inserita in quella fitta rete di relazioni politiche ed economiche, il cui strumento principale era la concessione in enfiteusi degli ampi beni fondiari appartenenti alla chiesa ravennate, attraverso cui l’arcivescovo insieme con l’aristocrazia controllavano e gestivano il potere nell’esarcato e nella pentapoli.
Patrimonio parziale di Santa Maria di Pomposa alla fine del IX secolo (le località in giallo sono di sicura identificazione; le località in viola sono di probabile ma non certa identificazione)
Inoltre, la donazione ci permette di gettare uno primo, parziale, sguardo sul patrimonio di Santa Maria di Pomposa: da un lato, ci sfugge completamente l’ampiezza dei singoli beni perché nel testo non vi è alcun riferimento alla loro estensione, dall’altro lato non sappiamo se il monasterium detenesse solo le parti indicate nella donazione o possedesse quelle proprietà per intero, magari gestendo in modo diretto le altre parti o concedendole a soggetti diversi da Engelrada. Comunque, pur con l’avvertenza che il documento ci fa vedere solo una porzione del patrimonio, si ricava l’impressione di una dimensione decisamente locale dell’ente religioso: infatti, i due beni identificabili con sicurezza, quelli a Cornacervina e a Finale di Rero, distano entrambi circa 25 km da Pomposa.
L’impressione che nel IX secolo Santa Maria di Pomposa fosse uno dei vari monasteria presenti nell’esarcato caratterizzati da dimensioni ridotte e da un’orizzonte locale, per quanto inseriti nell’ampia rete del potere arcivescovile, sembra confermata da un placito, giuntoci in copia semplice della seconda metà del XII secolo, che vide contrapposti gli uomini di Comacchio a Giovanni VIII, arcivescovo di Ravenna [Benericetti, Le carte ravennati dei secoli ottavo e nono, n. 19, pp. 44-48]. Fra l’850 e l’859, forse proprio a Comacchio, i messi imperiali Angelberto e Milone furono inviati a dirimere una controversia sorta sul possesso di metà di una massa, ossia una grande proprietà fondiaria: i rappresentanti dell’arcivescovo la rivendicavano quale bene della chiesa ravennate, mentre i comacchiesi riconoscevano a Ravenna solo quella parte della massa che già deteneva il monastero di San Vitale. Dalla lettura del testo si ricava che la metà contesa della massa corrispondeva all’intera insula pomposiana, cioè quell’ampio territorio delimitato dal Po di Volano, dall’antico fiume Goro e dal mare Adriatico, dove sorgeva Santa Maria di Pomposa. Il placito si risolse a favore dell’arcivescovo di Ravenna, che si vide riconosciuta la piena proprietà dell’ insula pomposiana: sappiamo così per certo che, alla metà del IX secolo, il luogo stesso dove sorgeva Pomposa era proprietà della chiesa ravennate. Inoltre, proprio il fatto che il monasterium di Santa Maria non sia neanche nominato nella controversia, mi sembra una ulteriore, per quanto indiretta, conferma della sua scarsa rilevanza politica e patrimoniale, attestata proprio pochi anni prima della più antica testimonianza scritta della sua esistenza, cioè il frammento di lettera di papa Giovanni VIII datato all’874.

Bibliografia scelta

Fonti:
Ruggero Benericetti, Le carte ravennati dei secoli ottavo e nono, Faenza 2006.Fragmenta registri Iohannis VIII papae, ed. Erich Caspar, in Epistolae Karolini Aevi V, Monumenta Germaniae Historica Epistolae 7, Berlino 1928.

Studi:
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Storia e archeologia di una pieve medievale: San Giorgio di Argenta, a cura di Sauro Gelichi, Firenze 1992.

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